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JACKIE O MOTHERFUCKER
© Lorenzo Casaccia, 2002
Alchemy (Imp, 1995)
Cross Pollinate (Imp, 1996)
Flat Fixed (Imp, 1998)
Fig. 5 (Road Cone, 1999) (6.5/10)
Wow (Fisheye, 2000)
Magick Fire Music (Ecstatic Peace, 2000)
Liberation (Road Cone, 2001) (5/10)
U Sound Volume 2 (Usoundarchive, 2002)
Change (Textile, 2002) (6/10)
I Jackie O Motherfucker si formano nel 1994 attorno al sassofonista Nester Bucket
e al chitarrista Tom Greenwood. Si sono alternati all'interno della band circa
venti elementi sparsi su tre citta' (Portland, New York, Baltimora), a seconda
degli spostamenti dei leader.
Dopo diverse uscite su piccole label, la visibilita' dei
Jackie-O migliora con "Fig. 5", un disco che presenta al meglio il
loro avant-country.
Le note di steel e banjo si alternano ai deliri di sassofono in lunghi brani
come "Your Cells Are In Motion", una sorta di free jazz al rallentatore
suonato per due terzi con strumenti della tradizione americana. La band procede
per cadenze liquide e ipnotiche, in una sorta di continuum da un brano all'altro:
vedi ad esempio "Beautiful September", con un groove di basso quasi
ambient a fare da contraltare al cantato sonnolento, ed un finale caotico. Con
pezzi come questo i Jackie-O Motherfucker fanno shoegaze con il country.
Emergono da ultimo anche echi orientaleggianti (la
lunghissima "Michigan Avenue Social Club").
Il disco contiene anche un paio di traditionals e si colloca nella tradizione
degli anni Settanta, a cavallo tra improvvisazione, operazione intellettuale,
omaggio al passato ed avanguardia.
6.5/10
(pezzo apparso su Rockerilla come sorta di
risposta ad una recensione dello stesso disco con voto 8/10 pubblicata sulla
rivista Blow Up, a firma del mio amico Stefano I. Bianchi: da qui alcuni riferimenti
che ora sembrano criptici)
(I dischi dei Jackie-O Motherfucker non insegnano un bel niente ma le loro recensioni
sono meglio?)
Giunto al settimo disco, questo ensemble di Portland dal nome irriverente (ma
il suo fondatore aveva cominciato a New York) ben si introduce nell'estetica
della sua etichetta, una Road Cone che ha gia' ospitato i Rollerball, autori
quest'anno del piu' che buono "Trail Of The Butter Yeti"
Ormai si dovrebbe parlare a mio avviso di "suono Road Cone" perche' proprio
nei Rollerball si puo' andare a trovare un referente
per la strutturazione della materia sonora (e sarebbe interessante sviscerare
l'effettiva parte giocata da Mike Hinds della label nell'evoluzione di questi
gruppi).
La musica infatti attinge da fonti disparate rielaborando poi il tutto secondo
una tradizione riconducibile agli anni Sessanta-Settanta. L'ambizione e' quindi
quella di una sorta di musica totale che assorbe e disintegra allo stesso tempo
elementi della tradizione americana, psichedelia, free jazz e chi piu' ne ha
piu' ne metta.
Ma, ahime', il risultato finale e' meno avvincente di quanto sembri ed e' tutto
fuorche' qualcosa di mai sentito prima. Il disco si apre su un tappeto di dissonanze
di archi e xilofono colorato dalle divagazioni free della batteria, e prosegue
con lievissime variazioni per tutti i dieci minuti di "Peace On Earth".
Piu' interessante e' "Ray-O-Graph": una frase di chitarra che suona estratta
da un traditional viene reiterata con un effetto quasi ipnotico e su di essa
si innestano i clangori delle percussioni e le brevi frasi del violino (cose
molto simili - ma con ben altro feeling - avevamo gia' sentito nell'ultimo disco
della O'Neil), fino al consueto (scontato?) crescendo finale.
Il terzo brano, come il precedente, parte con un tema ripetuto, questa volta
di bluegrass, e sopra ci inserisce una voce femminile. Il seguente "In Between"
parte di nuovo tra indecisioni di chitarre, violino, xilofono, batteria ed electronics
e si produce, ad intervalli di 2-3 minuti, in un crescendo costruito su una
figura chitarristica rubata a Tom Verlaine.
Da questo punto in poi si gioca a carte scoperte ed il resto del disco, a parte
una cover di country, non offre altri stimoli interessanti.
A differenza dei Rollerball, che mostrano una maturazione di disco in disco
(secondo me non ancora conclusa), e che iniettano ampie dosi di gioco e freschezza
nel proprio mix (vedi il brillante inserimento delle parti vocali), la musica
dei Jackie-O soffre assai di autoreferenzialita'.
Proponendosi con uno stile assolutamente codificato nel suo presentarsi apparentemente
privo di codici, questo melange sonoro si rivela essere in piu' di una occasione
un involucro vuoto, un susseguirsi di suoni privo di una bussola.
Come spesso accade, in tutti i generi, questa e' una musica che vive di una
idea generale molto vaga, e la replica all'inifinito in brani-fotocopia talvolta
indistinguibili tra di loro.
Come spesso accade, sarebbe possibile estrarre un frammento da un brano e riposizionarlo
altrove a caso.
Personalmente non concordiamo con chi indica in questa mancanza di direzione
la cifra artistica del presente e ci e' arduo assegnare un valore artistico
a quella che talora appare come semplice mancanza di un minino sforzo di elaborazione.
Una certa validita' della citata idea di fondo salva il lavoro dalla bocciatura
completa, ma, ragazzi, i dischi imperdibili sono un'altra cosa.
Change (Textile, 2002)
Tornano i Jackie O Motherfucker.
Tornano dopo otto anni di attivita' coronati soprattutto dalla nomina a "band
di avant-rock del 2001" da parte di Wire - giudizio che peraltro
nel nostro piccolo non condividiamo, preferendo di gran lunga i Rollerball,
loro colleghi su Road Cone - e tornano con un disco al solito lungo e sognante.
Non siamo stati generosi con i Jackie O in passato (stroncando ad esempio il
loro "Liberation", osannato da piu' parti), ma
a questo giro "Change" si fregia di qualche bel colpo di coda.
Dopo l'iniziale "Everyday", una ballata country, il gruppo mostra
infatti le proprie doti migliori su "Sun Ray Harvester", un lentissimo
indugiare di un violino su un tappeto di rumorismi psichedelici, orientaleggianti
e acustici (non siamo distantissimo dallo Shalabi
Effect) che pero' poi deraglia tra un sussurro di fiati e un clangore di
piatti. E' il brano migliore del disco, quello che ci fa pensare che in fondo
anche i Jackie O proprio male non sono.
A seguire, "7" sembra un blues suonato dal Tom Waits di Bone Machine,
ma serve solo ad introdurre "777", un altro brano di ambient-country-jazz
(con violini e fiati in libera uscita) a dire il vero un po' scontato.
Tra le note positive si colloca di nuovo l'eccellente "Feast Of The Mau
Mau", con un tour de force del sassofono il quale parte imitando i borborigmi
dello Zorn di "A Classic Guide To Strategy" e va poi a sfiorare Coltrane
macerando in un tribalismo africano.
Al di la' dei giudizi di merito, le loro elucubrazioni improvvisative sul corpo
della musica americana ancora una volta faranno discutere.
6/10