JULIANA HATFIELD
Hey Babe (1992) (8/10)
Become What You Are (1993) (8/10)
Only Everything (1995) (7.5/10)
Please Do Not Disturb (EP, 1997) (6/10)
Bed (1998) (7/10)
Beautiful Creature (2000) (5.5/10)
Juliana's Pony: Total System Failure (2000) (6/10)
In Exile Deo (2004) (5/10)
"L'anti-Madonna per eccellenza".
Cosí é stata definita Juliana Hatfield e cosí mi piace ricordarla.
Juliana Hatfield é stata un fiore nel deserto per l'indie-rock anni '90. Cover
girl suo malgrado, per il suo essere bella-brava-cantante-leader di una rock
band. Ma anche femminile, schiva e anti-personaggio per eccellenza. Grazie a
lei c'é stata strada per tutte le donne rock di oggi, da Alanis alle Sleater-Kinney,
da Shirley Manson a PJ Harvey che siano.
Il rock semplice di Juliana
appare forse ancora piú semplice oggi, che certo indie equivale al movimento
emo-core. Difficile coglierne le sfumature di significato per noi, troppo lontani
da quella college generation che tra cui fu famosa e da cui fu inghiottita.
Da noi non esistono i college americani, da noi si cresce in modo diverso,
e le nostre adolescenze non si nutrono di ansie che possiamo scacciare capovolgendoci
dei dischi di Juliana.
Uno sfasamento sociale che spesso porta a travisare molte musiche ma che non
impedisce di riscoprire i talenti. Oggi, con un buon marketing, starebbe forse
su MTV (dove comunque fece qualche comparsata a suo tempo). Allora, se la coccolavano
i giovani e le riviste alternative.
E poi, quale altro talento é stato in grado di edificare con la propria arte
un complesso emozionale tale per cui appare una recensione di un suo disco in
forma di lettera d'amore? (Non ci credete... beh, leggete
Glenn McDonald quando recensi' Bed).
Ma andiamo con ordine. La storia comincia alla fine degli anni '80. L'indie rock di Boston faceva sensazione: Pixies, Bullet LaVolta, Lemonheads. E Blake Babies. Quando Juliana Hatfield lascia i Blake Babies ed esordisce da solista nel 1992, l'impatto é immensamente diverso da quello che si avrebbe oggi. Quella ragazzina, timida ed introversa, per nulla sfacciatamente sensuale ma anzi cosí adolescenzialmente normale, non solo ha avuto l'ardire di condurre un gruppo post-punk, ma addirittura ora fa dei dischi da sola.
Nessuno ha mai capito se Juliana
sia stata la ragazza di Evan Dando, anche se molto se ne spettegoló (e comunque
sono fatti loro). Fatto sta che su Hey Babe, la matrice
é la stessa dei Lemonheads. Lo stesso Dando fa un paio di comparsate, con Mike
Leahy alla chitarra e Todd Philips alla batteria. Canzoni pop su chitarre robuste,
ma, diciamolo subito, questo non é grunge - per motivi ignoti, da noi c'é chi
ha accomunato la Hatfield alla cricca di Seattle - piuttosto é rock tipicamente
bostoniano, sulla scia di certi Pixies. Hey Babe si solleva di parecchio
dalla concorrenza per il songwriting, fantasioso e cristallino, per la voce,
da consumata performer che gioca a fare la bambina, e per i testi, cosí smaccatamente
post-teenager da essere costretti al successo presso la generazione X dei college.
Da "Forever Baby" a "Everybody
Loves Me But You", dal languore di "Nirvana" al melodramma di "Ugly", dall'hard
di "The Lights" al manierismo di "Lost And Saved", Hey Babe é anche sfoggio
di cultura musicale non indifferente (Juliana é laureata in canto al Berklee
College Of Music).
Siamo in epoca riot grrrls, e siamo in epoca post-Reagan. E' un'America
edonista, superficiale, quella che si respira. Fare rock che non sia semplice
punk femminista, carico di emozioni "da provincia", significa emergere, di fatto,
come la piú sinceramente femminile del lotto. E sicuramente significa centrare
la nostalgia di tutti i provinciali che vanno ad affollare i college e le megalopoli
statunitensi in cerca di fortuna.
Da Hey Babe viene estratta una cornucopia di singoli, spesso densi di bonus track, che confermano la ricchezza dell'ispirazione di Juliana.
Il disco che peró diventa un caso
é Become What You Are, dell'anno seguente, attribuito
a The Juliana Hatfield Three (al basso é entrato Dean Fisher e la Hatfield é
passata stabilmente alla chitarra).
La produzione di Scott Litt (REM), accentua il tono di folk elettrico di queste
composizioni. Sono le esili ed aeree "Little Pieces", "Feelin' Massachusetts"
e "For The Birds" a rendere il disco il gioiello che é, ma sono altri i brani
che lasciano il segno a livello di clamore. Come "My Sister", con gli oltraggiosi
(per l'epoca) versi "I hate my sister / She's such a bitch". Molto si ricamó
anche su questo, peccato che Juliana non abbia sorelle...
Con Become What You Are, seguito da un'altra manciata di singoli, Juliana
diviene personaggio da culto non solo nell'indie bostoniano. Lodata dalle riviste
alternative, su tutte il CMJ (il College Music Journal, bollettino di college-rock:
un rivista decisamente importante ai tempi), Juliana si imbarca anche in una
serie di dichiarazioni destinate a fare epoca. Affermando, venticinquenne, di
essere ancora vergine, e di non riuscire ad avere veri amici nella falsitá del
mondo che la circonda, Juliana diventa suo malgrado un'icona di "qualcosa".
Non di un movimento, ma di uno stato emozionale che si nutre di paura e solitudine,
di ore frustrate passate dai giovani nella propria cameretta, tensioni giovanili
tanto piú marcate in America quanto é difficile spiegarle qui da noi (ma ci
stiamo provando).
"I Got No Idols", titolo esplicito, potrebbe essere l'inno di questa generazione
come "Born In The USA" lo fu per i drammi della recessione e dell'era Reagan.
Potrebbe, ma non lo é, perché questa é una generazione troppo timida per avere
inni.
Non solo sbocciano i siti internet sulla Hatfield (non si era ancora all'epoca
in cui anche il bar sotto casa ha il suo sito), ma nasce addirittura una mailing
list su di lei. E' l'inizio di una pressione che sará la zavorra definitiva
di quest'artista.
E' per la Atlantic che nel 1995 esce
Only Everything che inizia con "What A Life", chitarra
grintosa imbracciata da Juliana subito in primo piano. La classe si sente, dalle
finezze di "My Darling" a "Fleur De Lys" con testo in francese, ed é asservita
a quella che forse é una crescita anche umana della musicista, ora anche chitarrista
e cantante aggressiva, sempre piú personaggio impagabile nel suo non essere
mai banale.
Pienamente identificata con la sua generazione Juliana si é convertita ad una
dieta alimentare straight edge. "Alcuni cibi come la carne ed il formaggio bloccano
la circolazione nel tuo corpo. Anche il caffé, l'alcool e il tabacco fanno male.
Ho smesso di fumare e bere, e non mangio piú carne. Se Only Everything suona
pieno di energia, é per questo motivo".
Siamo al picco della fortuna "commerciale" di Juliana (le mode dell'epoca si
stavano rinnovando). Per chi ha voglia di cercarla, su Rockerilla (n. 175, Marzo
1995) apparve una splendida recensione
di Only Everything, firmata da Piero Scaruffi che notava anche la profusione
di metafore vagamente sessuali nei testi.
In copertina di quel numero c'era PJ Harvey. I tempi stavano cambiando, Juliana
non era piú un unicum. Poteva essere o fama vera, o caduta. Cadde.
Dopo un tour annullato per esaurimento nervoso da stress, nel 1996/97 non esce God's Foot. Il disco, ultimato, viene infatti rifiutato dalla Atlantic. Finché si poteva se ne racimolavano i cocci su Napster.
Affossata dalla major, esce per la piccola Bar, l'EP Please Do Not Disturb, ancora carico di elettricitá, con Mike Welsh al basso ed il ritorno del fido Phillips alla batteria. E' un episodio minore in cui comincia una triste e incancrenita fuga di Juliana da se stessa. "It's not a sellout if nobody buys it" (sellout indica il musicita che si "svende" all'industria discografica) canta in "Sellout".
Cola a picco anche la visibilitá
della musicista. Quando nel 1998 esce Bed, fatto in
casa e senza un produttore, praticamente non se ne accorge nessuno. Quando lo
ristampano recentemente c'é chi pensa che sia un disco nuovo. Il songwriting
di "Sneaking Around", "Swan Song " e "Live It Up" raffinato anche quando é rabbioso,
é ancora intatto.
Ma ormai Juliana é un'artista sradicata dal suo mondo e quelle canzoni post-Pixies
non vanno piú di moda. La sua grandezza, che viveva dello specchiarsi di una
generazione nei suoi testi, non é piú tale. Quella generazione ora ha finito
il college, probabilmente lavora, forse si é sposata e pensa di aprire un mutuo
per comprare casa. Troppo, per questa eterna e commovente bambina.
La splendida, sussurrata, "Let's Blow It All" che chiude il disco é una predica
nel deserto, che diventa un capriccio lamentoso.
Marchiata dai propri drammi interiori,
Juliana torna nel 2000. Canta un pezzo in Chore Of Enchantement dei Giant
Sand e fa uscire due dischi, uno da solista e uno con una nuova band, Juliana's
Pony (un trio con Welsh e Zephan Courtney alla batteria).
Non ci sono piu' la freschezza di Hey Babe, la grazia di Become What
You Are e la grinta di Only Everything. Entrambi i dischi, per quanto
diversi, non sono che elucubrazioni della Hatfield su se stessa e con se stessa,
e francamente non e' che la cosa sia ormai piu' troppo interessante.
Si potrebbe ripercorrere la storia di questa musicista soltanto dalle foto che
la ritraggono nelle copertine:
quanto pesano gli anni tra la ragazza enigmatica e rabbuiata di Beautiful
Creature o Bed, quella carina di Hey Babe e quella sfrontata
dei Blake Babies?
E ancora, quella generazione femminile che era al college quando Juliana era
una diva del college-rock si riconosce ancora in questi dischi, nelle emozioni
e nelle paure contratte di "Beautiful Creature" e nella rabbia e nell'isteria
di "Total System Failure"?
Con Beautiful
Creature, il disco solista "ufficiale", Juliana in sostanza continua il
cammino artistico segnato un paio d'anni fa da Bed, dopo il divorzio
dalla Atlantic. Gia' il primo pezzo ("Daniel") sembra una continuazione da "Bad
Day" dal disco precedente, ed in generale tutto il lavoro e' fatto di canzoni
scarne, melodie piu' esili che in passato e chitarra arpeggiata. Un paio di
canzoni da luce soffusa per voce e chitarra ("Close Your Eyes", "Slow Motion"),
voce sempre in evidenza anche in quelli un minimo piu' robusti ("Cool Rock Boy",
"The Easy Way Out") e un paio di pezzi in stile "Become What You Are" ("Somebody
Is Waiting For Me", "Might Be In Love"), non a caso quelli in cui a metterci
le mani c'e' Scott Litt.
Purtroppo per fare un disco come questo ci vogliono classe e personalita' e
se la classe non e' acqua, della personalita' ci sono poche tracce.
Juliana's Pony e' invece una nuova
band, con Mikey Welsh al basso e Zephan Courtney alla batteria. E' il lato arrabbiato
della personalita' di Juliana a venire fuori da Total
System Failure, fatto di chitarra distorta e chiassosa, voce un po' piu'
sforzata e testi diretti al limite della volgarita'. Anche se a volte sembra
di sentire una riot grrrl un po' in ritardo sui tempi, il risultato resta
leggermente migliore che sul disco solista.
Di tanto in tanto sembra di sentire di nuovo la grinta di un tempo ("Metal Fume
Fever", "Let's Get Married") e qualche apprezzabile mid-tempo con chitarra in
primo piano ("Road Wrath") ma quella che si e' persa e' pero' l'impressione
di dolcezza, di innocenza, tanto che l'intero disco vuole essere fin troppo
sfacciatamente in-your-face.
Anche vista dal vivo nel 2000, la Hatfield sul palco fa sempre il suo effetto, con il piglio da leader e dei timidi occhiali da sole. Suona solo un paio di brani vecchi (piu' una cover di "Have You Ever Seen The Rain" dei CCR con Bill Janovitz dei Buffalo Tom on stage) e quando il pubblico invoca "Nirvana" (da "Hey Babe"), prima accenna goffamente "Smells Like Teen Spirit", poi dice, forse un po' rattristata, "Why don't you wanna make me escape my past?". Significativo.
Juliana Hatfield per certi versi e' la Grace Slick degli anni Novanta. Nessuno come lei é riuscito ad essere figlio della propria epoca e a segnare l'indie-rock, segnando allo stesso tempo anche i cuori degli appassionati. Piú di quanto qualsiasi altra band, per quanto piú innovativa o rivoluzionaria, abbia saputo fare negli stessi anni.